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Chi è Amir?

Sono un regista e direttore della fotografia di 34 anni. Sono nato al Cairo, ma ad un mese di vita mia madre mi ha portato in Italia, a Milano, dove mio padre si era già stabilito da anni. Ho sentito fin da subito, quando ero ancora un adolescente, l’esigenza di tradurre attraverso la luce e le immagini quello che in altro modo non avrei saputo comunicare. È stato come un richiamo: mi ricordo che utilizzavo tutti i soldi della paghetta dei miei genitori per andare al cinema.  A fine spettacolo restavo seduto, come ipnotizzato, con lo sguardo fisso sui titoli di coda, e mi chiedevo che cosa significassero tutte quelle professioni. Nel frattempo mia madre si chiedeva come realmente li avessi spesi quei soldi, non ci poteva credere!!!

Per cosa lotti?

Direi che ho sempre scelto la strada più difficile per la mia realizzazione professionale, tutto reso ancora più arduo perché la tua famiglia non proviene da questo settore. Il solo fatto di essere riuscito a rendere una passione quello che avevo sempre desiderato rappresenta per me una grande vittoria. Mi verrebbe da dire che lotto per l'autodeterminazione e per far sì che ognuno di noi possa portare avanti, in maniera libera, la ricerca del proprio posto nel mondo. Quello che mi ha sempre guidato fin dall’inizio è stata la ricerca della propria identità a partire dal concetto di origine, ma anche rispetto a sé stessi, a chi ti è vicino e alla società in cui viviamo. Il destino, poi, come spesso accade ci ha messo del suo, facendomi incontrare una persona che è diventata per me come un secondo padre e che ha cambiato totalmente la mia prospettiva rispetto alle difficoltà che si possono incontrare  nel proprio percorso, professionale e di vita. Mi riferisco a Marco Onorato, tra i migliori direttori della fotografia al mondo, che mi ha insegnato come il lato umano sia molto più importante dei successi e delle delusioni professionali.

Quale è la tua rivoluzione?

Sono convinto che se veramente si ha qualcosa da raccontare, a prescindere dai mezzi a disposizione, si riuscirà a portare a termine quel racconto e ad arrivare al cuore delle persone. La mia piccola rivoluzione, a questo proposito, è quella di raccontare gli emarginati, gli ultimi e i dimenticati, partendo sempre dalle emozioni più profonde che risiedono negli angoli più nascosti di noi.

A chi/cosa ti ispiri?

Mi ispiro a tutto ciò che è libero da pregiudizi e dogmi. Mi piacciono gli artisti liberi, che sanno oltrepassare barriere e preconcetti mischiando diversi codici visivi e linguistici, che appartengano a tutti noi, dall'arte urbana fino a narrazioni più complesse. Mi affascina quella ‘terra di mezzo’, tra il mondo reale e il mondo immaginario, fatta di sogni e visioni oniriche, per me sono fonte d'ispirazione e sopravvivenza.

In che modo si può essere ribelli oggi?

L'idea di riunire tanti giovani ragazzi con dei grandi talenti nel segno dell’arte mi sembra l’unica forma di resistenza possibile e di ribellione, cosa che ho cercato di creare con il mio progetto Origines, ricercando dunque un'identità che prescinda dal colore della pelle e dal credo religiosoMai come in questo momento storico, inoltre, l'urgenza è quella di raccontare storie reali di vita quotidiana che rispecchino tutte le contraddizioni di questo tempo, rivelando la necessità di una nuova coscienza, in cui ognuno si immedesimi nell'altro.




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